Pubblichiamo il fondo del presidente della FNOB, sen. Vincenzo D’Anna, online sul numero di settembre del “Giornale dei Biologi”
Laboratori di analisi, figli di un dio minore?!?
di Vincenzo D’Anna*
Da ormai un ventennio il mondo dei laboratori di analisi si è radicalmente trasformato grazie alla meccanizzazione. Il processo analitico, una volta frutto della perizia del professionista (che manualmente confezionava sia i reagenti che l’esecuzione delle metodiche avvalendosi di pochi semplici strumenti), è stato affidato all’estrema precisione ed alla velocità di apparecchi sempre più autosufficienti e sofisticati. Insomma: la fase di determinazione analitica e quella di registrazione e di emissione del referto, sono stati affidati, sostanzialmente, ai computer ed ai servomeccanismi che guidano e controllano, contemporaneamente, quelle medesime procedure, trasformando in fase industriale la parte professionale. Ne è conseguito un progressivo risparmio di reagenti e di tempo oltre che di personale. A valle di tutto ciò è emerso anche un maggior margine di guadagno destinato ad incrementarsi quanto più alto diventa il numero degli esami processati. Il tutto anche grazie alle economie di scala realizzabili oltre quello che viene chiamato, dagli economisti, il “break event point”. Quest’ultimo è la soglia minima di attività oltre la quale l’impresa di laboratorio ricava il rispettivo guadagno. Sì, proprio così: “impresa”, perché la trasformazione dei vecchi rapporti convenzionali da persona fisica a persona giuridica, ha trasferito quel rapporto con il SSN dal professionista ad una società lucrativa che è governata dalle leggi dell’imprenditoria e dal bilanciamento tra i costi e i ricavi. Il trasferimento di quel legame ad un’azienda ha anche consentito al vecchio titolare del rapporto “ad personam” di poter traferire, oppure vendere, la società e quindi l’attività professionale stessa che sarebbe inevitabilmente cessata con il suo pensionamento. Due enormi vantaggi, questi ultimi, che la totalità dei laboratoristi ha sfruttato appieno ricavandone indubbi profitti e vantaggi. L’industrializzazione della fase del processo analitico ha anche indotto il governo a ridurre le tariffe di remunerazione, ancorché in maniera inadeguata ed insostenibile per molti versi, soprattutto per quanto concerne quei lavoratori con un minimo volume di prestazioni erogabili e che quindi hanno tratto scarsi vantaggi dall’economia di scala e dalla meccanizzazione, in questi casi ridotta al minimo per stato di scarsa disponibilità economica e, nel tempo, divenuta finanche vetusta. Si tenga conto che nel Sud Italia i processi di razionalizzazione dell’offerta di prestazioni sanitarie, indicati dalla legge di riforma epocale 833/78, sono rimasti quasi lettera morta. Questo anche in omaggio alle politiche clientelari che nel Mezzogiorno la fanno ancora padrone e che consentirono, negli anni dei disciolti enti mutualistici, una pletora di autorizzazioni per l’apertura di laboratori di analisi convenzionati con le mutue. Un dato eloquente: nella sola Sicilia operano ben ottocento laboratori di analisi, un numero ben superiore a quelli presenti in tutto il Nord America (Usa e Canada)!! Così per la Campania, la Puglia, il Lazio e la Calabria. Lo stesso in verità vale per gli ospedali, le case di cura, i centri di fisiochinesiterapia, cardiologia e radiologia se considerati in proporzione alla popolazione. Altra storia invece nel Nord del Paese dove le strutture sono poche ma il numero degli esami erogati per ciascun paziente è molto più alto. In Sicilia ed in Campania, invece, i laboratori erogano una media di nove prestazioni per residente all’anno, contro le diciannove per residente della sola Lombardia. Quindi appare del tutto inutile tagliare le tariffe per ridurre la spesa per prestazioni analitiche, ed al contempo ridurre il numero dei laboratori. Errato, come ha inteso fare il Ministero della Salute per molto tempo, legare le erogazioni e gli sprechi, al numero dei laboratori. Peraltro cosa si vuol mai ridurre se la spesa per analisi cliniche vale appena lo 0,56 % del Fondo Sanitario? Quindi il vero problema non è tanto la “quantità” di quel che si eroga quanto la “qualità” delle prestazioni prodotte. Mentre per le case di cura esistono fasce di remunerazione, nella specialistica ambulatoriale la tariffa è identica e chi si “arrangia” e vive di piccoli espedienti, viene premiato. Quindi entriamo nel campo del volume minimo di prestazioni che quei livelli minimi di qualità possono garantire. Da mero fattore economico la soglia di efficienza si traduce in requisito minimo di accreditamento delle strutture in grado di garantire la qualità delle prestazioni rese!! Ebbene, sotto certi volumi le risorse finanziarie e la remuneratività della struttura non consentono di realizzare ed adeguare, nel tempo, assetti organizzativi, strutturali, strumentali e di personale adeguati a mantenere lo standard di qualità che il committente statale richiede all’erogatore. Ad esempio c’è chi lavora su contaglobuli ad uso veterinario (costo: 5/6 mila euro) e chi invece si attiva sugli apparecchi a laser (costo: centomila euro) ma entrambi ricevono la stessa tariffa di remunerazione. Le Regioni purtroppo hanno diversamente normato i requisiti minimi di accreditamento creando anche altre disparità di costi da sostenere a scapito della qualità. In Sicilia, ad esempio, vige ancora la “circolare Pistorio” che poco o niente impone in materia di requisiti per i laboratori. Ben altro e più oneroso è richiesto in altre Regioni. In questo siffatto sistema è difficile valutare con equità lo stato dell’arte. Ed ecco che alligna così la mala pianta dell’imbroglio, dell’evasione fiscale e contributiva, con paghe sempre più basse nei contratti di lavoro per i dipendenti. Un sistema nel quale “arrangiarsi” diventa la parola d’ordine, vivere ai margini della legalità una condizione essenziale, non fosse anche per lo stato di bisogno. Eppure da questo segmento che sottostà a minori oneri (a parità di prestazioni), insorge la resistenza a rispettare la legge sulla rimodulazione della rete dell’offerta vigente dal lontano 2006. Praticamente: si fa passare per equità la furbizia di reiterare una condizione di privilegio economico. Sorgono così come funghi sindacati ed associazioni protestatarie perché quello “stato di cose” illegittime e vantaggiose si perpetri indefinitamente nel tempo. Orbene chi dirige un Ordine professionale non può tenere bordone a questi soggetti, non può girarsi dall’altra parte fingendo di “non sapere”. Ed allora chi invoca, doverosamente, il rispetto delle norme e denuncia gli espedienti che alterano oppure eludono la loro applicazione, viene tacciato come nemico della categoria. Così per coloro che si oppongono alla cosiddetta “rete di impresa” che è già lecita e prevista tra le forme di aggregazione tra laboratori. Quel che si tace è che la stessa rete che si propone è ben altra cosa, ossia una furbata illegittima per eludere la soglia di qualità. Se i componenti della rete che sono sotto soglia, continuano ad erogare prestazioni (sia pure di bassa complessità) si vìola la legge che impedisce tali erogazioni sotto soglia!! Ma c’è di più!! Le strutture in rete conferiranno al laboratorio capofila gli esami più complessi e più remunerativi (genetica, biologia molecolare, immunologia etc.) portando guadagno e lavoro ai capofila. Un paradosso che favorisce questi “eroici” difensori dei piccoli laboratori dai quali traggono vantaggi economici. Certo tutto si può discutere e modificare, ma la menzogna è la furbizia vanno denunciate, senza se e senza ma. Modificare la legge è possibile a patto che si dimostri quale sia la qualità che si garantisce per le prestazioni erogate. La genetica, la genomica, la biologia molecolare, la medicina preventiva, rappresentano il presente ed il futuro. Esse richiedono un salto di qualità organizzativa. Si affacciano, inoltre all’orizzonte, le gare d’appalto per le prestazioni sanitarie volute dalla già vigente legge sulla concorrenza. Chi resta nelle microscopiche ed autonome dimensioni che avvenire potrà mai avere? Che ruolo svolgeranno se non quello dei paria rispetto ai capofila della rete di impresa? Se i consorzi non cancellano il codice regionale delle strutture aderenti e fanno salva la proprietà delle strutture, se gli esami vengono conferiti su carta intestata di ciascun centro aderente (come accade in Campania) non è più certa la sopravvivenza dei laboratori in un ambito aggregato? Oggi, facinorosi e “protestatari” a parte, fare un salto di qualità significa non soccombere. Non rimanere cioè figli di un dio minore.
*presidente della Federazione Nazionale degli Ordini regionali dei Biologi